Wednesday 1 April 2009

La citta' di smeraldo

La permanenza a New York e' quasi terminata e prossimamente corrispondero' da un luogo ben piu' interessante, il Midwest americano. Il granaio del mondo. 

Piu' precisamente mi trasferisco a Kansas City, a meta' tra lo stato del Kansas e quello del Missouri. Si tratta del luogo piu' centrale dell'intero paese e per questa caratteristica topografica, la regione viene anche chiamata "heartland", il cuore della nazione. Quella che un tempo era prateria oggi e' un immenso spazio coltivato che si estende per centinaia, anzi migliaia di kilometri. Tutto piatto, verde, uguale. Prima ancora di essere prateria, il Kansas era un mare. L'acqua copriva tutto, tutto quello che un giorno sarebbe diventato erba per dinosauri dunque per bisonti, ed oggi grano per il nostro pane.

E' da piu' di un anno che aspetto questo trasferimento e malgrado lo sgomento sui volti delle persone quando dico dove sto andando, sono felice e  sempre piu' eccitata all'idea di un'estate da passare nella piu' vera, profonda, desolata, repubblicana, bianca e tutto sommato genuina provincia americana. Le mie altissime aspettative includono: agricoltori con la camicia a quadri, gente che non sa dove e' l'Italia, enormi automobili dalla cilindrata inaudita, carabine, bistecche, donne sovrappeso, pastori neocon che inneggiano all'astinenza sessuale, un fanclub di John Mc Cain, etc.etc. Se le mie aspettative dovessero essere deluse saro' costretta ad andarmene e abbandonare il Kansas per sempre.

All'idea del trasloco nel fantastico mondo di Oz, mi sono trovata a riflettere nuovamente su questa citta' e su cosa probabilmente non mi manchera' di Manhattan. La premessa necessaria a questo suicidio "bloggistico" e' che quando lasciai Londra quasi sei mesi fa, ero stufa e stanca di tutto, non vedevo l'ora di abbandonare l'umidita' dell'Isola, programmi televisivi come "Britan's got talent" e soprattutto l'incapacita' di relazionarsi tipica degli inglesi. Inutile dire che dopo poche settimane nell'inverno americano, di quella citta' mi mancava gia' tutto,  il supermercato, poi la luce, le case, l'autobus.... Ora la lezione l'ho imparata a nell'elencare pro e contro di questo inverno sulla Quinta Strada terro' conto del passato.

L' Excuse me! preventivo e' tra tutte le cose di questa citta', quella che odio di piu'. Si tratta di un' esclamazione antipatica e spesso insopportabile che tutti (uomini, donne, fighi e sfigati) si arrogano il diritto di pronunciare. Accade tipicamente sul marciapiede, spesso quando non affollato. Il newyorkese in questione cammina furiosamente verso di te, sembra uno spartano/a che va alla guerra e il suo sguardo su di te ti fa sentire improvvisamente un democraticissimo ateniese. L'individuo metropolitano procede a passo spedito, si avvicina velocemente e nel giro di un istante, malgrado siate le uniche due persone sul marciapiede, non vi siate ancora toccate e non vi sfiorerete neppure poiche' la traiettoria di entrambi camminando e' chiara, questi esclama stizzito "Excuuse meee!!".  L'abitante di Manhattan ti sta regalando preventivamente l'invettiva scocciata che ognuno di noi si beccherebbe nelle sfortunato caso gli impedissimo il passaggio o addirittura gli andassimo addosso. E' incredibile, il newyorkese non ti lascia il tempo di intralciarlo e ti fa la tirata quando e' ancora a due metri da te. Questa pratica da sociopatici e' odiosa e piu' di una volta ormai, gli sfortunati che ci hanno provato con me, si sono beccati la loro dose di italianita'.

Sunday 22 February 2009

Ghiaccio

Il tragitto che da Nuova York conduceva alla citta' di Boston era costeggiato da piccoli laghi e corsi d'acqua che nei mesi piu' freddi dell'anno si ghiacciavano e permettevano agli abitanti di quei luoghi di praticare la pesca invernale. Era possibile scorgere nel mezzo di quelle distese grigioazzurre, figure solitare che spesso accompagnate da un cane scondizonlante, facevano buchi nella superficie indurita dell'acqua e calavano l'amo. Sorseggiando un caffe' caldo, vedevo i pescatori aspettare pazientemente, investiti dalla pallida luce del sole di febbraio. Mai e poi mai pero', mi capito' di scorgere il luccichio di un pesce o semplicemente un bagliore veloce di squame e pinne ad illuminare il chiarore slavato di quelle giornate.
Giunti nella citta' di Boston il ghiaccio era spesso e ampio. Qui, l'inverno non era piu' solo pace dei pescatori, ma diventava il passatempo dei bambini. A vederlo da vicino e a toccarlo con mano, il lago congelato dei giardini pubblici era una lava bianca, quasi una pietra "polare" e non come i laghi di campagna visti dalla strada, un sottile piatto di cristallo (da dessert) pronto a frantumarsi se al peso dell'uomo e del suo cane, si fosse aggiunto quello di pesce di troppo. Nei gridolini dei bambini, tutta la tensione percepita poche ore prima alla vista dei pescatori svaniva, e cosi' anche l'idea del pericolo e della possibilita' che ogni tanto, qualcuno potesse finirci sotto il ghiaccio e rimanerci fino a primavera.

Monday 2 February 2009

Il fiato della nazione

Quando si attende il verde per attraversare Park Avenue, capita che la terra tremi sotto I piedi. Il passaggio di un’auto a pochi metri di distanza fa vibrare la strada come il pavimento di legno di una vecchia soffitta. Sotto, niente.

La sensazione di vuoto fisico e immenso che si sente aspettando il verde a Park Avenue, riporta fulmineamente la mente alle fogne, alle tubature, alle galleria della metropolitana, ai topi, e anche ai barboni che insieme ai topi vivono nella metropolitana. L’asfalto sobbalza sotto di me ed io m’immagino il buio e la città svilupparsi al rovescio. Sottoterra. Strati e strati di civiltà urbana invisibile che si accumulano uno sotto l’altro. Livelli di tubi, cemento, gallerie e scavi. Grattacieli a testa in giù che senza lucine raggiungono il centro della terra. Molto spesso poi, capita che il sottosuolo si faccia sentire. Capita che la sporca vita del piano di sotto sfiati, e vapore puzzolente t’investa per la strada fuoriuscendo dai tombini.

Martedì 20 Gennaio 2009, dopo aver sentito nuovamente il manto stradale trasalire e aver tremato al pensiero che ogni cosa potesse crollare sotto i miei piedi, sono stata investita ancora dal fiato caldo di questa nazione e per una volta grazie al cielo, non puzzava.

La mattina del 20 gennaio, la nuova America in diretta da Washington ha respirato, e le immagini dell’insediamento di Barack Obama hanno regalato a mezzo mondo ossigeno puro.

Dopo una campagna elettorale fatta di discorsi alla “I have a dream”, Barack Obama ha finalmente abbandonato i toni da predicatore e ha assunto quelli del politico. Certo i pastori non sono mancati sia prima, che durante, che dopo la cerimonia, le preghiere e le benedizioni pubbliche sono state abbondanti e fastidiose ai miei occhi d’italiana laica.

Tornando al discorso e ai temi toccati, molti si sono sentiti ispirati e hanno pianto calde lacrime di gioia, altri (non pochi) ci sono rimasti male e si sono incupiti perché il consueto e incoraggiante Yes, we can (“Si, ce la possiamo fare”) non e’ stato il tema fondamentale delle parole di Obama; io personalmente non ho pianto ma sono stata soddisfatta.

Obama, difatti, e a differenza di quello che pensano in molti non e’ molto simpatico ma e’ estremamente intelligente e serio, questo il motivo per cui nel momento del suo insediamento ha evitato le se pur belle ciarle della campagna elettorale e ha presentato al popolo americano, una visione più reale di quello che sta accadendo. Durante il discorso dell’insediamento Obama ha messo in chiaro di non essere Dio e di non essere David Copperfield. Non appariranno pani e pesci per le strade e la crisi finanziaria non si dissolverà magicamente come avvenne per la Statua della Libertà anni addietro.

Obama ha voluto mettere in chiaro, che il vuoto sotto i nostri piedi c’è, e non si tratta solo di una fastidiosa sensazione, come aspettando il verde a Park Avenue. Il vuoto, il buio e il marciume su cui questa nazione è costruita hanno iniziato a sgretolarsi e invece di urlare si salvi chi può, dobbiamo finire tutti sul fondo e solo dunque, sempre tutti e sempre insieme, rimboccarci le maniche e piano piano risalire la china.

Ecco perché Obama e il suo discorso (pessimista) sono ossigeno per questa nazione e non una mentina gigante dall’effetto momentaneo. Ecco perché penso che Obama, snob e completamente privo del senso dell’umorismo, stia bene dove sta. Ecco perché aspetto il verde con un po’ più di fiducia in me stessa e soprattutto negli altri.

Tuesday 13 January 2009

Le mie scarpe vagabonde...

Eccomi a scrivere in quello che credo sia l’unico Starbucks a Manhattan sprovvisto di connessione wireless. La leggenda (metropolitana) vuole che questo incredibile agglomerato urbano offra la più alta concentrazione di caffè Starbucks del pianeta. Un’altra leggenda, ma io credevo essere verità, e’ che tutti questi caffè offrono connessione ad internet gratuita ai loro clienti. Questo il motivo per cui gli studenti, gli scrittori e quelli che si atteggiano a pensatori si trasferiscono con i loro portatili in questi locali per giornate intere e dal terribile caffè che consumano sembrano trovare l’ispirazione (e la connessione) che forse a casa loro non trovano.

Oggi in realtà non vorrei parlare di Starbucks, quanto del fatto che per la prima volta in vita mia anch’io sono qui con il mio computer e indossando i miei stivaloni di pecora australiana cerco di “fit in” e cioe’ di vivere New York con la stessa naturalezza con la quale s’indosserebbe un abito fatto su misura.

La doverosa premessa a questo inizio e’ che così come qualche anno fa ormai (sigh!) mi divertii a scrivere dalla mia vita cinese, vorrei oggi scrivere della mia vita americana. Forse esagero a chiamarla in questo modo ma sta di fatto che dopo aver studiato e vissuto a Londra per circa un anno, mi sono trasferita qui, un po’ per caso e un po’ per amore. “Amore” per un ragazzo che mi ha chiesto di seguirlo. “Caso” perche’ oggettivamente questo e’ l’ultimo posto dove una giovane specializzata in Asia e con passaporto italiano dovrebbe trovarsi a conclusione dei suoi studi.

Per dovere di cronaca e per rispetto dei posteri che leggeranno questo pezzo tra migliaia di anni, vorrei specificare che il mondo, in particolare il “primo” mondo, vive da circa 5 mesi la peggiore crisi economica che la storia abbia mai registrato dal crollo del ‘29. Il 2008, infatti, e’ stato l’anno che ha unito la fine di istituzioni finanziarie potentissime e la perdita di migliaia di posti di lavoro in tutto il globo, all’elezione storica del primo presidente americano nero. Il 2008 e’ stato dunque un anno contraddittorio che mi ha visto arrivare qua, affaticata e pessimista; un anno che e’ terminato nel silenzio di una guerra di Natale e nel silenzio di coloro che temono la dilagante depressione collettiva e lo spettro di una depressione ugualmente collettiva ma diversa, economica. Un anno che ho cominciato con una cinese sul pavimento del soggiorno e un buco nella manica del maglione.
Lenticchie? Poche.

Tornando a me, uno dei motivi per cui scrivo, e’ che voglio dimostrare a me stessa di essere ancora in grado di raccontare i miei viaggi, di far sorridere e d’interessare chi mi legge. Ancora oggi (quattro anni dopo) ci sono persone che mi scrivono e che si ricordano di me per gli articoli pubblicati su “Studenti Statale”; gente che non mai visto e conosciuto ma che mi fa i complimenti o mi chiede consigli pensando che io sia ancora a Xi’An. Un altro motivo fondamentale per cui ho deciso di raccontare, e’ per dare un senso alla mia permanenza qui. Per far si che questi mesi possano essere un esperienza di crescita e non un’opportunita’ lasciata correre. Questo perche’i miei conoscenti, famigliari e amici si dividono in due gruppi principali: coloro che saggiamente si chiedono perche’ io sia venuta qui e pensano che abbia completamente perso la testa; e quelli che invece, drogati dai film americani, vedono la cosa in maniera piu’ romantica. Quelli che m’immaginano a Manhattan, strafiga e magari truccata, con l’uomo della mia vita, con il caffe’ nella mano destra mentre cammino per le strade affollate. Coloro che mi vedono passeggiare a Central Park, a fare compere sulla Quinta strada e a pattinare sul ghiaccio al Rockfeller Center.

Ebbene e’ proprio per le menti iconografice che ho deciso di cambiare atteggiamento e di succhiare tutte le energie che quest’isola emana.

E’ per quelli che si sentono vivi quando ascoltano My Way e New York New York che voglio crederci.

E’ per i cuori romantici che mi trovo nell’angolo della terra maggiormente afflitto dalla crisi economica, dove nessuno e’ in grado di offrirmi un lavoro e voglio sorridere.

E’ per gli amanti degli happy end dunque che sono da Starbucks.

Con il mio portatile.
Strafiga.
E con gli stivali di pecora ai piedi.

Wednesday 8 October 2008

Lao Zi, il leggendario maestro del Taoismo, dice che un viaggio lungo mille miglia deve iniziare con un singolo passo.

E' questo il passo piu' difficile, quello che non spesso non si riesce ad intraprendere e che io attraverso questo spazio cerchero' di compiere.

Dopo anni di assenza dalle scene, provero' a raccontarvi ancora delle mie avventure e cerchero' di farlo spesso, senza annoiarvi e talvolta anche scrivendo in inglese per darmi un tocco di classe e per la gioia di color che parlano altre lingue.