Tuesday 13 January 2009

Le mie scarpe vagabonde...

Eccomi a scrivere in quello che credo sia l’unico Starbucks a Manhattan sprovvisto di connessione wireless. La leggenda (metropolitana) vuole che questo incredibile agglomerato urbano offra la più alta concentrazione di caffè Starbucks del pianeta. Un’altra leggenda, ma io credevo essere verità, e’ che tutti questi caffè offrono connessione ad internet gratuita ai loro clienti. Questo il motivo per cui gli studenti, gli scrittori e quelli che si atteggiano a pensatori si trasferiscono con i loro portatili in questi locali per giornate intere e dal terribile caffè che consumano sembrano trovare l’ispirazione (e la connessione) che forse a casa loro non trovano.

Oggi in realtà non vorrei parlare di Starbucks, quanto del fatto che per la prima volta in vita mia anch’io sono qui con il mio computer e indossando i miei stivaloni di pecora australiana cerco di “fit in” e cioe’ di vivere New York con la stessa naturalezza con la quale s’indosserebbe un abito fatto su misura.

La doverosa premessa a questo inizio e’ che così come qualche anno fa ormai (sigh!) mi divertii a scrivere dalla mia vita cinese, vorrei oggi scrivere della mia vita americana. Forse esagero a chiamarla in questo modo ma sta di fatto che dopo aver studiato e vissuto a Londra per circa un anno, mi sono trasferita qui, un po’ per caso e un po’ per amore. “Amore” per un ragazzo che mi ha chiesto di seguirlo. “Caso” perche’ oggettivamente questo e’ l’ultimo posto dove una giovane specializzata in Asia e con passaporto italiano dovrebbe trovarsi a conclusione dei suoi studi.

Per dovere di cronaca e per rispetto dei posteri che leggeranno questo pezzo tra migliaia di anni, vorrei specificare che il mondo, in particolare il “primo” mondo, vive da circa 5 mesi la peggiore crisi economica che la storia abbia mai registrato dal crollo del ‘29. Il 2008, infatti, e’ stato l’anno che ha unito la fine di istituzioni finanziarie potentissime e la perdita di migliaia di posti di lavoro in tutto il globo, all’elezione storica del primo presidente americano nero. Il 2008 e’ stato dunque un anno contraddittorio che mi ha visto arrivare qua, affaticata e pessimista; un anno che e’ terminato nel silenzio di una guerra di Natale e nel silenzio di coloro che temono la dilagante depressione collettiva e lo spettro di una depressione ugualmente collettiva ma diversa, economica. Un anno che ho cominciato con una cinese sul pavimento del soggiorno e un buco nella manica del maglione.
Lenticchie? Poche.

Tornando a me, uno dei motivi per cui scrivo, e’ che voglio dimostrare a me stessa di essere ancora in grado di raccontare i miei viaggi, di far sorridere e d’interessare chi mi legge. Ancora oggi (quattro anni dopo) ci sono persone che mi scrivono e che si ricordano di me per gli articoli pubblicati su “Studenti Statale”; gente che non mai visto e conosciuto ma che mi fa i complimenti o mi chiede consigli pensando che io sia ancora a Xi’An. Un altro motivo fondamentale per cui ho deciso di raccontare, e’ per dare un senso alla mia permanenza qui. Per far si che questi mesi possano essere un esperienza di crescita e non un’opportunita’ lasciata correre. Questo perche’i miei conoscenti, famigliari e amici si dividono in due gruppi principali: coloro che saggiamente si chiedono perche’ io sia venuta qui e pensano che abbia completamente perso la testa; e quelli che invece, drogati dai film americani, vedono la cosa in maniera piu’ romantica. Quelli che m’immaginano a Manhattan, strafiga e magari truccata, con l’uomo della mia vita, con il caffe’ nella mano destra mentre cammino per le strade affollate. Coloro che mi vedono passeggiare a Central Park, a fare compere sulla Quinta strada e a pattinare sul ghiaccio al Rockfeller Center.

Ebbene e’ proprio per le menti iconografice che ho deciso di cambiare atteggiamento e di succhiare tutte le energie che quest’isola emana.

E’ per quelli che si sentono vivi quando ascoltano My Way e New York New York che voglio crederci.

E’ per i cuori romantici che mi trovo nell’angolo della terra maggiormente afflitto dalla crisi economica, dove nessuno e’ in grado di offrirmi un lavoro e voglio sorridere.

E’ per gli amanti degli happy end dunque che sono da Starbucks.

Con il mio portatile.
Strafiga.
E con gli stivali di pecora ai piedi.